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Rassegna Stampa

La Repubblica- 21 dicembre 2006

Cinquant'anni fa moriva Robert Walser
QUELL'ULTIMA PASSEGGIATA

di Enrico Regazzoni

Oggi è uno scrittore di culto, ma per paradosso, desiderava scomparire.

Nel primo pomeriggio del giorno di Natale del 1956, il corpo di Robert Walser, scrittore fragile e tenace, fu trovato nella neve, senza vita, lungo il sentiero che conduce alla Wachtenegg, la sommità occidentale del Rosenberg, cantone dell'Appenzzellen, Svizzera tedesca. A detta dei due ragazzi della fattoriali accanto che per primi gli si avvicinarono, Walser giaceva con una espressione tranquilla, la testa reclinata di lato e la bocca aperta. Senza sforzi e forse senza dolore, almeno all'apparenza, la morte lo aveva sfiorato e convinto. Poiché le date sono rintocchi, i cinquanta colpi che separano questo Natale da quello, chiameranno a raccolta i lettori speciali di un autore così speciale.

Al punto che, più che i lettori, sarebbe il caso di parlare di ammiratori, e perfino di seguaci. Da Kafka a Benjamin, a Musil, la devozione per la scrittura sommessa di questo signore che riteneva che la modestia, l'umiltà e la subordinazione fossero le sole comete affidabili - e che pertanto non voleva essere nessuno, sognava di "diventare uno zero" ed essere dimenticato - si è estesa negli anni a una folla sensibile e grata, che in questa occasione vorrà celebrarlo con discrezione, ma anche come si merita: e cioè come uno che scrisse solo parole necessarie alla sua stessa vita, come un filosofo senza teoria, e dunque come un esempio.

Quando morì, all'età di 78 anni, Walser era ricoverato da 27 anni in una casa di cura per malattie mentali. Nel gennaio del 1929 era stato internato nella clinica Waldau di Berna, per poi essere trasferito, quattro anni dopo a Herisau, in una nuova casa di cura dalla quale non si sarebbe più allontanato se non per le sue instancabili passeggiate, fino all'ultima, in quel Natale di cinquant'anni fa.

Ma perché era stato rinchiuso? Era pazzo, Robert Walser? Giro la domanda a Fleur Jaggy, anche lei svizzera e scrittrice, che ne I beati anni del castigo, a dato conto della rigida educazione impartitale in un collegio di Teufen, sempre nell'Appenzzellen, non lontano da Herisau.

"Ma no, non ho mai pensato che fosse un folle", dice Jaeggy. "Era un poeta, e semplicemente non sapeva dove andare. Nell'accettazione di quel ricovero, per così tanti anni, c'è tutta la sua pazienza. E non dimentichiamo il problema economico: oggi gli scrittori sono abbastanza aiutati, ma lui non ebbe aiuti. Da questo punto di vista, per quanto dura, la vita a Herisau fu una buona soluzione.

Se invece consideriamo la cosa sotto il profilo medico, la diagnosi che precede il suo internamento ha dell'incredibile, parla di "tipica , stuporosa catatonia". E' vero che aveva tentato il suicidio, ma erano stati tentativi inermi. Nulla di realmente pericoloso, insomma. Walser aveva la gaiezza dei disperati, che li porta a occultare la profondità e a tenere tutto in superficie. Per questo voleva sparire. Se penso che io ero li vicino, proprio nel 1956, e nessuno dei miei professori lo conosceva…

In seguito quando lavoravo al mio libro, ho voluto tornate nell'Appenzzellen sui luoghi delle sue camminate. E sono andata anche al manicomio di Herisau, per domandare sue notizie. Ma un'infermiera mi ha allontanato bruscamente". Questa "tipica, stuporosa catatonia" diagnosticata dai medici getta un'ombra sinistra sul confine che separa la normalità dalla patologia, l'equilibrio psichico dell'instabilità e, in definitiva, il benessere dalla sofferenza.

Un confine frequentatissimo dagli artisti, che battono le zone del pensiero più a rischio, quelle dove fioriscono le domande che danno dolore. Cosa direbbe infatti un diligente psichiatra di uno scrittore come Thomas Bernhard, che sosteneva di aver desiderato il suicidio "quasi tutti i giorni" della sua vita, e "quasi tutti i giorni" di esser stato felice? Come minimo che Bernhard era vittime di una nevrosi euforico-depressiva.

Con Walser, poi, fischiare un fuorigioco clinico è ancora più facile. Tutti i suoi libri (da L'assistente a I fratelli Tanner, da Jakob von Gunten a La passeggiata, da I temi di Fritz Kocher a La rosa ) sono infatti attraversati dal doppio registro del nichilismo e dell'allegria, una costante frizione fra l'assenza di qualsiasi finalità edificante dell'azione umana e l'imperturbabile compiacimento dei gesti quotidiani. Frase dopo frase Walser si muove verso le radici del sentimento intatto, verso un nulla perfetto e felice. Ma sempre senza drammi rifiutando le tragiche derive della Wanderung romantica e dell'ego ferita, e ad esse preferendo passeggiate ironiche e spensierate.

Nel libro che gli era pù caro, lo Jakob von Gunten, il protagonista ci informa di quanto va apprendendo nell'Istituto Benjamenta, incredibile fucina di formazione alla vita. Fa proclami che appendono il lettore a un divertito sgomento tipo: "quelli in certo senso intelligenti come me, devono lasciare che il buon impulso che è in loro fiorisca e si afflosci al servizio degli altri"; oppure: "noi allievi non speriamo in nulla, anzi ci è assolutamente vietato nutrire nel nostro intimo alcuna speranza per l'avvenire; e nondimeno siamo perfettamente tranquilli e sereni"; o ancora: "apprezzo il modo in cui apro una porta. E' un'azione che contiene più vita riposta di qualsiasi domanda"; o anche: "una sola cosa so di preciso: noi aspettiamo! Questo è il nostro valore"; o infine: "sono diventato un uomo comune (…) e ciò mi riempie di una fiducia indicibile…".

Non molto misterioso, insomma, il fatto che il titolare (svizzero!) di una simile Weltanschaung si sia ritrovato (dopo esser stato impiegato di una banca, assistente di un ingegnere, cameriere in un castello, militare a puntate, e sempre e comunque scrittore in camere ammobiliate) di fronte alla clinica di Waldau, sottobraccio alla sorelle Lisa. "Ancora davanti alla porta d'ingresso le chiesi se quello che facevamo era giusto. Il suo silenzio mi bastò. Che altro mi rimaneva se non entrare?", raccontò lui stesso all'amico Carl Seelig, il critico che segui la pubblicazione delle sue opere negli anni dell'internamento e che, soprattutto, fu per un ventennio l'appassionato e puntuale compagno di escursioni fuori dalla casa di cura.

Di queste gite lo stesso Seelig tenne un diario minuzioso oggi leggibile in un libro di Adelphi dal titolo Passeggiate con Robert Walser (tutti i testi di Walser del resto sono editi in Italia da Adelphi, a eccezione de L'assistente, apparso da Einaudi). Pagine memorabili, fitte di scorci alpini e lampi di poesia, rovesci di pioggia e crostate di formaggio, parole di fuoco e silenzi di fiaba.

. Marciando alla domenica di buona lena (Walser era capace di coprire anche ottanta chilometri in dieci ore), i due compagni conquistano l'intimità della fatica, ciò che dà modo allo schivo scrittore di lasciarsi sfuggire confessioni su se stesso e opinioni su tutto: la guerra, la natura, il suo passato, gli autori prediletti e quelli detestati, e poi la vita nella clinica, la vecchiaia, le grandi risorse della gentilezza…

Ma è il tono della voce, che incanta. E' la felicità del dare. Come i suoi personaggi, Walser si offre senza aspettarsi nulla. "Il suo era un vero spreco, una nozione festiva della scrittura, liberata da qualsiasi finalità pratica", osserva Gianni Celati, narratore che di Walser ha un personale culto. "Per chi scriveva, infatti? Per nessuno, e il suo manierismo nasceva proprio dalla certezza di non dover dire niente.

Con l'epidemia di romanzi d'attualità che c'è in giro, e il conseguente crollo dell'intelligenza, Walser resta una specie di luce, un'energia che i media non hanno ancora divulgato e perciò svuotato. Grazie al cielo, non c'è ancora la categoria del "walseriano", cosi come purtroppo esiste quella del "kafkiano o del gaddiano". In effetti le etichette non vanno meno strette al nostro dei recinti psichiatrici.

Malgrado i tentativi, anche affettuosi e accorti, di reclutarlo nel girone dei grandi appartati (ultimo, quello dello spagnolo Enrique Vila-Matas, che nel suo "Bartleby e compagnia" edito da Feltrinelli, ha dedicato a Walser un posto d'onore fra gli autori devoti al silenzio), Robert Walser sembra destinato a conservare l'enigma e la libertà che la natura riserva agli animali.

Un cane che risale al trotto per un bosco, senza meta ne coscienza.
Qua e la si ferma e annusa l'aria: sembra riflettere, ma è un'apparenza.
La sua muta felicità, l'inafferrabile bellezza.

 
 

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"Da ragazzo non facevo che leggere. Quello che leggevo diventava per me una seconda natura. Cominciai a leggere perchè la vita mi diceva di no;
La lettura invece aveva la bontà
di dire sì alle mie inclinazioni e
al mio carattere."
Robert Walser